28 giugno, 2018

QUANDO MI HANNO SABOTATO IL CERVELLO

A volte mi accorgo dei miei malfunzionamenti; dev'essere come per mia nonna quando pure lei, a volte, si accorge che qualcosa non torna nelle cose che fa mentre non ricorda, mentre attraversa un vuoto d'aria, una discontinuità tra una cosa e l'altra. Allora mi dice: ho detto o fatto qualcosa di sbagliato, vero?

Pure io sento la fatica che fa il mio cervello per funzionare, per non disintegrarsi e per tenere tutto insieme; lo sento contorcersi e scricchiolare e, solo di tanto in tanto, improvvisamente, provo una lucidità completa, perfetta, come quando per sbaglio o dallo sforzo, da miope metto a fuoco un oggetto lontano, senza occhiali. E' un momento, breve ma perfetto. E in quel momento mi accorgo del groviglio che è la mia testa il resto del tempo e della fatica che devo fare per farlo lavorare: per forza che mi sento così stanca e che mi sembra di aver vissuto il doppio degli anni. Gli ingranaggi sono molto complicati, i circuiti pure, mi consumo a farli funzionare ed è normale che qualcosa, spesso, vada in corto: è tutto strano là dentro.

Qualcuno mi ha sabotato incasinandomi il cervello.

Ricordo quando lo faceva mia madre: la costanza, l'impegno e il piacere perverso che provava mentre mi tormentava. Io ho fatto i salti mortali per salvare il mio cervello e ci sono riuscita ma, evidentemente, ha comunque subito gravi danni.

Come spiegare a chi ha vissuto una infanzia tutto sommato tranquilla ciò che ho provato nella mia tanto travagliata?

Provo a riassumere.

Sono cresciuta in uno stato di allarme perenne: mia madre colpiva in qualsiasi momento e per qualsiasi ragione, in modo gratuito, violento e crudele.

Mi picchiava perché, per sfogarsi, aveva bisogno di farmi male. Esercitava la propria autorità con perverso godimento: spesso le sue minacce portavano necessariamente alle vie di fatto perché le condizioni per l'armistizio consistevano in richieste impossibili da soddisfare: spiegami perché l'hai fatto o ti gonfio / Stai zitta, non voglio sentirti fiatare altrimenti ti levo dal mondo.

Calma, con un ghigno di potere mi sussurrava di abbassare le mani e farmi colpire per farla smettere.

Mi scuoteva furiosa gridando fuori di sé che ero una maledetta con pretesti futili: perché l'hai fatto? perché? è colpa tua di tutto, mi fai schifo. Io ero solo una proiezione della sua mente.

Ogni cosa che non andava era colpa mia; quando ero ancora una bambina, mi diceva che la assillavo con i miei problemi, che ero la causa del suo cancro e che se avesse scoperto di essere malata terminale, mi avrebbe uccisa nel sonno.

Mi tormentava fino a logorarmi e smetteva un attimo prima di esaurirmi completamente per garantirsi il giochino il giorno seguente.

I pretesti erano qualsiasi cosa, come i rumori che producevo sottolineando un libro mentre facevo i compiti, muovendo un piede mentre leggevo, esistendo. La mia sola presenza era ragione di fastidio e causa di scenate isteriche. Difficile concentrarsi su altro da lei e quindi studiare. Studiavo quotidianamente il modo di sopravvivere.

Mi umiliava e derideva.

Tradiva le mie confidenze.

Negava l'evidenza dei suoi maltrattamenti.

Mi addestrava a comprendere le sue emozioni e ragioni, a difenderla, ad accettare le sue contraddizioni, le sue angherie: io le servivo da specchio, da sostegno, da passatempo, da sollievo per le sue crisi.

Mi minacciava di abbandonarmi, di portarmi in collegio dove, raccontava una sua amica che pare ci fosse stata, i maschi abusavano delle femmine. Dovevo essere proprio orribile per meritarmi una minaccia simile.

Mi sfidava a ribellarmi, sapendo che avrebbe usato la forza per ristabilire l'ordine, non vedendo l'ora di reagire.

Da bambina, ho dormito da sola in macchina mentre lei si faceva i cazzi suoi perché ero troppo piccola per stare in casa da sola o perché avevo paura di starci ma poi avevo più paura a stare da sola in macchina di notte: ma lei se ne andava compiaciuta di trattarmi come il suo cagnolino. 'Non puoi venire con noi, è una cosa da grandi, ti annoieresti. Stai qui, non faccio tardi. E dormi!'.

Durante il mio lungo ricovero in ospedale per una etmoidite -avevo 11 anni-, costretta a dormire lì con me -per quanto in un letto suo e una stanza solo per noi-, quando, di notte con la febbre a 40 e l'occhio fuori dalle orbite a causa della malattia, mi lamentavo mio malgrado, sommessamente e con discrezione, addestrata a non disturbare, mia madre comunque si arrabbiava con me, perché -poverina!- lei non riusciva a dormire. Mi ordinava di smettere di fare rumore perché ciò la innervosiva e il nervoso che le procuravo le impediva di riposarsi. In ospedale, il resto del tempo, a tenermi compagnia c'era sempre mio nonno, l'unico della famiglia che abbia mai giocato con me in generale e pure nella malattia. Sarebbe stato meglio stare da soli di notte o dormire con la mia compagna di sventure, un'altra ragazzina ricoverata lì che mia madre non perdeva occasione di umiliare e mandare via giudicandola maleducata e stupida. Dovevo avere il vuoto attorno: io non ero una persona, ero il suo giochino. Le dava fastidio tutto di me, con o senza problemi. In fondo avevo un padre che aveva abdicato al proprio ruolo genitoriale senza conseguenza alcuna e lei rivendicava la parità di diritti! Me lo ha proprio detto, che lei ne aveva diritto quanto lui. E, così, a tutti gli effetti ha fatto: mi sbolognava ai nonni materni ogni volta che poteva e, a forza di sensi di colpa, li ha costretti ad occuparsi di tutto ciò che mi riguardava, nonché del mio mantenimento e tornava da me solo per tormentarmi. Il suo giochino. Irrinunciabile, in qualche modo.

Aveva relazioni conflittuali con chiunque. In casa era una lite quotidiana con i nonni e con me. Litigava, spiava e gridava oscenità al suo uomo; il suo uomo gridava oscenità a lei in mia presenza. E ogni loro litigata mi accusava di esserne la causa.

Da adolescente mi chiedeva morbosamente di dirle se avevo rapporti, fingendosi aperta e complice; poi cercava di sorprendermi in intimità con il mio ragazzo per umiliarci. Una volta che ci ha beccati un po' in disordine ma senza che avessimo fatto niente, impaziente di rovinare ogni momento della mia vita, ci ha tenuto una vergognosa lezione e messo in punizione: fare sesso alla nostra età avrebbe portato al cancro all'utero e poi, lei, avanguardia della libertà sessuale intesa come trasgressiva ricerca di conferme e psicoprostituzione, aveva dovuto farlo in macchina, di certo non ci avrebbe agevolato. E poi, che schifo. Da quel momento non avremmo potuto più andare a casa uno dell'altro senza genitori presenti. Pure lui aveva una madre patologica e morbosa. Ma siamo riusciti comunque a vivere momenti, pochi e brevissimi, di isolamento totale da tanta desolazione.

Era ossessionata dal mio corpo, dal mio aspetto, spinta ora da invidia, da bisogno di controllo, dall'ebbrezza di esercitare il potere della manipolazione, ora da un desiderio di riscatto personale attraverso di me. Perennemente preoccupata per sé stessa, se ero sciatta o trascurata mi riprendeva e faceva sentire inadeguata: ne andava della sua immagine e qualcuno avrebbe potuto sospettare qualcosa. Le apparenze erano importanti, tutto il suo giochino si reggeva sull'apparenza della normalità.

In casa con lei non esisteva privacy: non potevo chiudermi a chiave in bagno neppure da più grande e poteva e faceva in modo di entrare spesso e senza bussare, a volte, solo per infastidirmi. Un giorno, stavo male, stavo avendo un attacco di colite nervoso e mi reggevo a stento sul gabinetto appoggiata allo schienale cercando di respirare per non svenire dai dolori e lei è entrata: ha cominciato ad urlare che le facevo schifo, che lei sapeva cosa stavo facendo e mi dovevo vergognare. Bisognava fare poi attenzione pure a dare spiegazioni perché si scocciava e poteva finire a prendermi a manate. Tanto era solo voglia di tormentarmi la sua, non serviva una valida ragione, bastava improvvisare per lei.

Non mi ascoltava mai; quando le parlavo di qualcosa di serio si distraeva, chiedeva futilità, non seguiva, logorandomi e, se mi arrabbiavo, invocava il rispetto e lo ristabiliva a ceffoni o facendomi il verso.

Non aveva tempo per me e il tempo con me era sprecato, una punizione, la causa di ogni sua frustrazione.

Io ero un peso, un ingombro per lei: non ho mai avuto neppure un letto mio finché non sono andata a vivere dai nonni materni, a sedici anni, non perché non potessero comprarmelo ma perché non ci stava bene in casa. Avrebbe voluto una casa da signora, invece le è toccato un piccolo appartamento da condividere con quella stronza di sua figlia.

Ogni giorno era una guerra. In casa coi nonni non si poteva scherzare di nulla: doveva avere il controllo di tutto. Nessuno poteva essere felice, ridere, scherzare. Non aveva senso dell'umorismo, né autoironia ed era infelice. Imponeva una sorta di austerità, un lutto per lei, poverina, piena di sfighe di cui ci accusava di esserne la causa in continuazione.

Così, ogni singolo giorno, mi dimostrava quanto io fossi un peso, un fastidio, un ostacolo ma anche un oggetto di piacere perverso. Manipolare l'amore di una figlia è stato avvincente, entusiasmante, l'ha fatta sentire potente.

Nei momenti di solitudine che indubbiamente vive da quando mi sono allontanata, quando evidentemente realizza che sarebbe bastato tirare poco meno la corda per avermi ancora agganciata a suo uso e consumo, la sua stupida bambolina, allora mi lancia via sms generiche scuse a cui subito seguono insulti e oscenità per mancata risposta.

Cresciuta in balia sua e dei suoi capricci e problemi, gestita con grande difficoltà insieme ai miei nonni, tirata ora di qui, ora di là, nei loro ricatti, nelle loro contese e liti continue, ad oggi, mi sento a tutti gli effetti, una superstite.


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