29 luglio, 2024

IN UN MARE DI SENSI DI COLPA

Quando arrivo da lei, dopo anni di distanza e di silenzio, ha la bocca spalancata per cercare di respirare, gli occhi aperti, velati e non può più muoversi. 

Le sue compagne di camera mi dicono che prima che arrivassi io respirava appena mentre adesso ha un respiro forte e vigoroso. Quindi è qui, mi ha aspettata. Qualcuno -scopro poi- le ha detto che stavo arrivando. 

Oh mamma. 

Le parlo piano e la accarezzo, come quando ero bambina e mi chiedeva di farle i grattini. Dal respiro e un lieve movimento della bocca, intuisco che mi sente e che le piace. Le dico che le voglio bene. Ti voglio bene mamma. Hai fatto tutto quello che potevi, lo so. Si emoziona anche se è immobile. Si sente dal respiro. Mi parla col respiro. 

Vorrei condividere fino in fondo questa intimità ma le mie ferite mi fanno dubitare, mi confondo e penso che sapresti criticare anche in questa situazione. Siamo poi in una stanza con altre persone e i neon accesi. Mi distraggo, perdo il contatto. Ma resto con te, così, come posso.

Poi, il suo respiro si calma, rallenta e si pacifica. La pace, stavolta senza compromessi.

Rovino questo momento avvisando gli infermieri. Ci vuole molto perché il cuore si fermi del tutto. Ma io non lo sapevo. Spero che non fossi più lì quando ti hanno controllato.

Scusami per non averti creduta, per non essermi fidata. Non ce l'ho fatta neanche questa volta. Non ce l'ho fatta più da 12 anni a questa parte.

Mi dispiace mamma per tutto quello che hai sofferto nella vita. Io ho sofferto con te, ho sentito tutto sulla mia pelle. Spero di aver alleviato un po' del tuo dolore con la mia vita. Con il mio amore di bambina certamente ti ho nutrita. Da adulta mi sono allontanata, altrimenti sarei morta. Hai impresso sulla mia pelle e nel mio stomaco quello che ti hanno fatto. Porto sul mio corpo i segni del male che ti hanno fatto e che tu hai fatto a me. Sono diventata il tuo testimone, in un certo senso. Ma non so quanto ti sia servito. Di certo non ti ho salvato. E per questo sto malissimo.

Mentre soffrivo a causa tua, scoprivo la tua sofferenza, la tua paura, la tua solitudine. Sentivo ma non potevo fare nulla. Assistere impotente alla tua agonia ha generato in me sensi di colpa. 

Non riesco ancora a perdonarmi. Talvolta annaspo in un mare di sensi di colpa.

Nei giorni seguenti ho pianto così tanto che pensavo di disintegrarmi. Ci sono persone che sono venute a rimproverarmi, a biasimarmi. Eppure solo noi sappiamo cosa abbiamo passato io e te. Nessun altro. 

La verità non andrà perduta. Ci sono io a ricordarla. E oltre a me altri testimoni competenti. Non siamo più sole in quella prigione di solitudine. Adesso nessuno mi può più ingannare o confondere. Ho fatto ordine.

Desidero andare avanti con la mia vita. E, se proprio non posso evitarli, almeno vorrei riuscire a nuotare con stile nel mio mare di sensi di colpa.

Ti voglio bene mamma. 

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17 giugno, 2024

SPARGERE LE CENERI

Di nuovo qui. Dopo aver sparso legalmente le ceneri di mia madre insieme ad altre persone estranee su un battello che doveva sbrigare questa noia il prima possibile. 

Siamo partiti a busso, veloci come il vento e tra gli spruzzi. Forse volevano aiutarci a mimetizzare le lacrime e distrarci gli uni dagli altri nello sforzo di mantenerci seduti ognuno al proprio posto, anziché ammassati gli uni sopra agli altri a causa dell'inerzia dei nostri corpi. 

Abbiamo buttato le ceneri in fila, le une sopra le altre -mia madre avrebbe avuto da ridire- ma c'era corrente e forse si sono schivati. 

Però c'era anche vento e mia madre si è parzialmente spiaccicata sulla poppa della barca. Forse era l'unica lì sopra e da lì c'era una vista magnifica verso la sua spiaggia preferita. 

Poi si è tuffata e ha nuotato con mia nonna che in realtà era un delfino prima di diventare mia nonna e quindi anche mia madre era un delfino e ora nuotano e si tuffano felicemente nel loro mare preferito. 

Io spero di non venire mai sparsa là perché dev'esserci stato un equivoco al momento della scelta, non sono un delfino e potrei litigare con tutto l'aldilà per l'eternità.

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29 agosto, 2023

NUOVO INIZIO

In punta di piedi, mi affaccio e osservo questo paesaggio. E' bello essere qui. L'ho desiderato a lungo. 

E' cambiato quasi tutto intorno a me. Adesso ho una stanza tutta per me, come suggeriva Virginia Woolf (in "Una stanza tutta per sé"), con dentro un "Teatro del Mondo", -almeno io ci vedo quello!-, come quello di Aldo Rossi. Sembra proprio emergere dalla parete, sopra alla sua chiatta ormeggiata nella mia stanza! Si direbbe una architettura in fuga, sempre al suo posto e fuori posto. Smontabile e rimontabile. Sento una certa affinità. Due citazioni puramente affettive e non ostentazione culturale come potrebbe sembrare. Nella mia fuga da tutto, con la memoria in blocco, non potevo raccogliere più di tanto. Solo ritagli sparsi. E suggestioni.

Ho scelto questa stanza perché la più piccola, in alto, una chicca rispetto al resto. E' così piccola che non può essere contemporaneamente qualcos'altro come spesso succede alle stanze grandi in cui finisco per disperdermi. Anche la casa è piccola. E questo è il suo bello. C'è lo spazio che serve e non il vuoto pieno di inutile.

Ci sono poi due gattini in questa stanza e in questa nuova casa. Li ho presi con me il giorno in cui mi sono trasferita. E, da quando ho dipinto e riordinato la stanza tutta per me, -a mia immagine e somiglianza, pare-, portano spesso qui la loro energia.

Così, stamane, passando li ho visti e sono entrata con l'intenzione di rimanerci un po' e fare il punto su come mi sento. 

E' quasi un anno che vivo qui ma mi muovo ancora incerta. A volte in punta di piedi, trattenendo il respiro, a volte agitata, pronta a combattere per affermare il mio diritto ad esistere, a volte strisciando, pronta a rinunciarci. Un'andatura contorta ma comunque un'andatura. Da quando ci sono i gatti però, di tanto in tanto, con movimenti sinuosi, riesco ad evitare ansie e preoccupazioni.

Spesso entravo in questa stanza con senso del dovere e piena di aspettative. Così mi prendeva l'ansia e dovevo uscire. Qualsiasi spazio vagamente attrezzato a studio ancora mi fa pensare alla scuola e al clima opprimente che la caratterizzava e al tavolo di casa dove facevo i compiti. Quei posti, insomma, dove io ho sempre sofferto molto e concluso poco perché troppo impegnata a proteggermi dagli adulti persecutori. Impossibile concentrarsi su altro, su sé stessi e strutturarsi. Ma pensa un po', quanta strada ha fatto quella sensazione di pesantezza, di insicurezza e inadeguatezza.  

Per diversi mesi, ho quindi utilizzato la potenziale stanza tutta per me come sgabuzzino. Almeno era certamente utile a qualcosa e, soprattutto, non avrei disatteso aspettative, reali o interiorizzate. E me ne sono dimenticata. 

Eppure continuava ad esserci. I gatti mi hanno aiutato a ritrovarla. In qualità di diffusori ambientali di tranquillità ne hanno poi reso vivibile l'atmosfera. Se loro possono dormirci, non c'è niente di cui preoccuparsi!

Così, eccomi qui. I gatti dormono e io mi calmo in questa casetta nella casetta, un piccolo volume sottotetto, con una minuscola finestra quadrata attorno alla quale ho dipinto una cornice rossa. C'è la nicchia sporgente a forma di teatrino del mondo dipinta di giallo fuori e di rosso dentro, attrezzato con ripiani e scatole colorate; di fronte, un quadro allegro, blu e giallo, di un amico; sull'altra parete una libreria e, su quella opposta, un tavolo proporzionato alle dimensioni contenute della stanza e una sedia. Al centro, una amaca da soffitto. Ho una passione per le amache e l'antipatia per le poltrone. L'amaca da soffitto mi è sembrata il compromesso migliore per il relax casalingo. C'è poi un filo di lucine a led che passa sopra alla scrivania e intorno alla finestra e che talvolta accendo di giorno perché la stanza è un po' buia. La luce è calda e diffusa. Per terra, sotto l'amaca, un tappeto rosso dove mi rotolo coi gatti. Spesso un contrabbasso in sottofondo.

Non manca proprio niente. Solo, ogni tanto, la mia tranquillità, persa fuori da qualche parte.

Confido troverà sempre più velocemente la strada. O, almeno, un rifugio temporaneo se piove. A volte incontra un cane libero e passeggiano assieme come se si conoscessero da sempre. Due anime affini a spasso per caso. Fortuna che esiste il caso. Anche uno dei gatti va a spasso con lei. Pazzesco.

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[Ringrazio A.M. per tutto l'amore, l'attenzione e la cura che mette nella nostra relazione. Per aver contribuito e reso possibile la mia trasformazione e quella della nostra casa.]. 

18 luglio, 2023

STRINGERSI

Stavo cercando di dirti una cosa importante ma c'erano troppe interferenze. Ero dietro di te, eravamo vicini, ci facevamo largo in mezzo alla gente. Impossibilitati a passare, ti ho abbracciato. Poteva sembrare perché spinta o per non cadere. Ma hai sentito che ti stringevo perché lo volevo. La tua mano appoggiata su di me.

Stavo per dirti che avremmo dovuto parlare prima di arrivare e, in un attimo... Mi sono svegliata. 

Perché svegliarmi proprio in quel momento?

Subito mi sono sentita sopraffatta e non capivo. 

Nel ripensare al sogno, ho sentito che, in quel contatto, in un momento, ci siamo detti tutto. Le parole non servivano. Le parole, a volte, non servono. Il corpo parla e sente, meglio della testa. Solo che poi complichiamo tutto.

Vorrei stringerti.

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24 dicembre, 2021

NATALE

Natale s. m. - 1 Impegnativa festa di ricongiungimento familiare che prevede un rigido codice morale: sospensione delle recriminazioni (quantomeno non reciprocare chi non può fare a meno di recriminare), scambio di regali a caso o di regali concordati, mangiare fino a star male. Nel tentativo di evitare delusioni precoci, gli adulti consigliano ai bambini di ordinare i regali a Babbo Natale. La Magia a questo punto è già in crisi. Il colpo di grazia glielo dà il momento in cui gli adulti dicono ai bambini che i regali in più, oltre a quelli ordinati personalmente tramite la letterina, li ha portati il Babbo Natale di questo o quello. Disperata strategia nel tentativo di rendere riconoscenti i bambini verso i parenti altrimenti insignificanti. Babbo Natale, così facendo, viene percepito come un personaggio strano e confuso che non sta in piedi. La sua immagine sembra evanescente come le immagini nella foto di Ritorno al Futuro dopo che Marty ha interferito con la storia. E non sembra conoscere davvero i bambini, altrimenti saprebbe cosa regalare loro. In fondo il regalo dovrebbe essere questo: un dono pensato per l'Altro, dopo che l'Altro lo hai conosciuto e, almeno un pochino, lo hai avuto nel cuore. Un simbolo, un semino, dunque, di cura e non un gesto a caso. Ma nessuno si conosce davvero, né ha piacere di regalare ad altri, che potrebbero non ricambiare, qualcosa che potrebbe innanzitutto comprare per sé stesso, così si riduce tutto ad una fredda transazione economicamente equa. Si recita una parte e si passa oltre. La festa dell'ipocrisia, dell'avidità, della mancanza. Manca tutto ciò che conta, la magia delle magie: la cura. Persino chi cucina bene e sembrerebbe mettere cura in ciò che fa si rivela passivo-aggressivo, spingendo gli ospiti, con sottili ricatti morali, a mangiare fino a scoppiare. - 2 La festa che celebra la coazione a ripetere. - 3 raro: celebrazione della ricerca di spiritualità, ovvero di ciò che eleva l'essere umano dalla bestiaccia che c'è in lui. Occasione di intimo raccoglimento o sentita condivisione, di cura di sé e dell'Altro secondo le proprie possibilità.

Vi auguro un Natale nella sua (mia) accezione più rara!
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17 luglio, 2021

HORROR E DINTORNI

Durante il secondo lockdown ho visto tutta la serie "iZombi". Nei vari episodi, molteplici sono state le citazioni da altri film sugli zombi, da quelli di Romero a Warm bodies, passando per i supereroi e le fantasie apocalittiche (che ogni giorno che passa sembrano sempre più verosimili).

In iZombi la definizione "modalità zombi completa" riguarda la modalità zombi-travolto-dalla-rabbia, in contrapposizione con la modalità zombi in cui hai semplicemente contratto il virus dello zombismo ma tutto sommato sei quello di sempre finché ti nutri regolarmente di cervello umano e ti accontenti di quello di morti accidentali.

Nella modalità zombi completa, ti trasformi in un killer assatanato di cervello e di vendetta, dalla forza eccezionale che, solo attraverso un autocontrollo altrettanto smisurato, puoi mettere al servizio della collettività, puoi usare per difenderti in casi estremi oppure per fare deliberatamente del male agli altri.

Emerge la questione del libero arbitrio; di come aiutare e, nel frattempo, convivere coi malati; del bene comune; di come i "sani" possano trasformarsi in sadici persecutori; di come gestire una pandemia sia un gran casino, che qualsiasi decisione si prenda presenta sempre vantaggi e svantaggi; di quanto il malato possa insegnare al sano; di quanto sia difficile la gestione del conflitto; di come fare la cosa "giusta" comporti un giusto sempre relativo; di come la malattia possa far riflettere e maturare così come le difficoltà in generale ci consentono di strutturarci; di come la condizione "normale" sia una semplificazione schematica, rigida e incompleta della realtà; di come la normalità sia composta di bene e male insieme, di giusto e sbagliato, di parti diverse in equilibrio e di come non possa che evolversi in continuazione; di come ognuno, a questo proposito, faccia fatica a mettersi in discussione; di come le emozioni, i sentimenti e le nostre capacità di gestirli, condizionino le nostre vite, ecc. ecc.

La "modalità zombi completa" non è necessariamente qualcosa di negativo, anzi. Mette in evidenza un disagio, mai isolato, e, occuparsene, permette di trovare soluzioni utili ai problemi di tutti, perché a tutti può succedere di trovarsi in quella condizione, perché tutti siamo giusti e sbagliati a seconda della situazione, perché tutti siamo imperfetti e, soprattutto, abbiamo una conoscenza incompleta. 

Solo chi vuole lucrare sulla vita degli altri racconta di essere portatore e difensore di una "normalità" assoluta, dell'unica condizione legittima possibile, e di corrispondere esattamente all'immagine idealizzata di realtà che a molti capita di agognare. Quella dove si fa carriera attaverso il compiacimento. Ci si compiace vicendevolmente e con vigore di essere puri. Si stabilisce arbitrariamente e in modo del tutto infondato che se hai certi requisiti fisici e fisiologici allora vali di più. E' un trucchetto vecchio quanto il mondo e che, per questa ragione, funziona sempre, a vincere elezioni, a ottenere i consensi dei frustrati a fare le peggio cose e ad arricchire i disonesti.

Credere a quel genere di persone che promettono "normalità" e una realtà prevedibile e immutabile, è facile, comodo e rassicurante. Ma è una trappola. Essi lucrano sulla fragilità e sulle debolezze dei loro simili.

Continuamente, come esseri umani, corriamo il rischio di provocare o di incorrere in prevaricazioni, aggressioni, guerre, dittature più o meno camuffate, magari indirette e per questo più facili da conciliare con ciò che rimane della coscienza.

Costruire qualcosa di buono insieme agli altri e mantenerlo è molto faticoso. Traditi sulla fiducia dai nostri stessi genitori, ci sentiamo arrabbiati e bisognosi di giustizia. Fare del male agli altri forse può far sentire meno vittime e meno bisognosi di essere accettati e rispettati, perché abbiamo l'illusione di farci noi le nostre regole, di obbligare gli altri a compensare le nostre mancanze. Trovare incazzati come noi con i quali unirci e sentirci vicini, poi, genera un'illusione di appartenenza sicura. Ma le persone che basano la propria vita sulla prevaricazione sono affidabili compari finché torniamo loro utili. E' certo che prima o poi ci butteranno via, ci elimineranno, ma solo dopo averci usato.

Forse sapere che più o meno tutti, in un modo o nell'altro, siamo stati traditi molto precocemente e siamo feriti da qualche parte, rompe l'illusione che ci siano privilegiati esenti da sofferenza, delusione, deprivazione affettiva, miseria umana. Non è molto, ma forse è quanto basta per smettere di passare la vita a distruggere e iniziare a costruire. 

Insieme, ognuno sulle sue gambe. Altrimenti diventa un cazzo di film horror.

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11 giugno, 2021

QUAL E' LA PROSSIMA MOSSA?

LA REGINA DEGLI SCACCHI



Qual è la prossima mossa?

Non sembra anche a voi che la vita assomigli ad una partita a scacchi? Vi capita mai di domandarvi quale sia la prossima mossa e di arrovellarvi il cervello cercando di capire le possibili conseguenze delle vostre decisioni?

Come negli scacchi, nella vita non è possibile muoversi a caso e liberamente e per ogni nostra mossa ci sono delle conseguenze. 

A seconda del momento, siamo pedoni, alfieri, cavalli, torri. Solo quando siamo regine possiamo muoverci "liberamente" ma sempre sulla scacchiera e non senza rischi.

Eppure, nonostante i limiti, le mosse possibili sono moltissime, molte più di quelle che normalmente riusciamo anche solo a pensare. Pensare, infatti, comporta fatica, confronto, studio e richiede resistenza, passione, vitalità. Per muoversi, poi, ci vuole coraggio, capacità di adattamento e visione di insieme. E bisogna allenarsi. 

Quando va bene, passiamo solo la prima parte della nostra vita di adulti a sbattere la testa contro il muro di false convinzioni, più o meno distorte e prive di utilità, che ci hanno messo davanti agli occhi i nostri confusi genitori e la disordinata società in cui siamo cresciuti, e che ci inducono a fare mosse sbagliate. Passiamo un tempo più o meno lungo a rivendicare una vaga idea di libertà e a lamentarci della fatica che ci costa vivere secondo le errate indicazioni ricevute. 

Accade così di concentrarsi su ciò che non possiamo fare anziché su come muoverci meglio possibile. Accade di vivere anche tutta la vita sotto scacco, non sempre perché non ci siano mosse salvifiche fattibili ma perché non si riesce proprio ad immaginarle: pensarle è molto faticoso, persino doloroso; richiede di concentrarsi, di liberare la mente, di lasciare andare, di rompere un attaccamento, di perdere qualcosa. Ma solo con quelle mosse la partita può continuare. Altrimenti essere sotto scacco finisce per trasformarsi in una condizione esistenziale e lo scacco matto è quasi una liberazione.

I pezzi degli scacchi nel loro insieme sembrano rappresentare l'essere umano scomposto nelle sue molteplici sfaccettature e dimensioni, nelle diverse fasi e funzioni della sua vita. Come per gli scacchi, appare fondamentale conoscere ogni nostro pezzo, le sue potenzialità e i suoi limiti, e saper attingere a quello giusto al momento opportuno. 

I pezzi degli scacchi insieme costituiscono un complesso corpo unico che, strada facendo, scendendo a compromessi con il principio di realtà, si modifica, lascia andare ciò che non gli occorre più, ciò che ha svolto la sua funzione; certamente, un po' si consuma, diventando nel tempo più compatto, coeso ma anche più efficace se ha lavorato bene fino a quel momento. 

Per crescere bisogna lasciare andare. E lasciare andare sembra piuttosto faticoso, doloroso, contro istintivo.

C'è sempre qualcosa da sacrificare di noi stessi in favore di altro che ci permette di evolvere.

Forse, concentrandoci nel realizzare il nostro potenziale, nell'ottenere il meglio da noi stessi e nel metterlo in circolazione, non avremmo modo di pensare troppo a ciò che non possiamo fare e sarebbe più sopportabile la fatica di vivere. 

Ogni nostra mossa fa succedere qualcosa in noi e intorno a noi. E così fanno le mosse degli altri.

Non importa quanti pezzi hai a disposizione. Probabilmente hai comunque davanti a te la possibilità di fare diverse mosse valide. Non importa se non riesci a prevedere tutte le possibili mosse degli altri giocatori, c'è un tempo per pensare e uno per agire anche se non completamente pronti. Altrimenti si rischia di rimandare troppo a lungo e di scoprire all'improvviso che è scaduto il tempo.

Qualche volta, bisogna farsi un po' male per evitare di morire. 

Main Title by Carlos Rafael Rivera

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16 maggio, 2021

QUEI TRE PORCELLINI CHE ERANO ANCHE TRE DEI SETTE NANI E FORSE LA BANDA BASSOTTI

Tanti anni fa, tre de I Sette Nani decisero di andare a vivere per conto proprio. Biancaneve era sfiancata, non c'era stato verso di civilizzare quei tre esseri intrattabili e si arrese, accettando di buon grado che si levassero di torno. 

Quelli erano poi tre nani solo in apparenza. Certamente erano molto bassi fisicamente. Ma erano davvero deficitari soprattutto moralmente. A Biancaneve era persino venuto il dubbio che fossero abusivi e che i Nani fossero solo 4, mentre loro tre non erano altro che degli impostori. Forse i tre della Banda Bassotti.  

A nulla valse il consiglio di costruirsi tre casette indipendenti, consiglio che Biancaneve, mentre li guardava prepararsi per andare via, diede ai tre piccoli ingrati. Con il loro caratteraccio non sarebbero mai riusciti a convivere a stretto contatto. Ma i tre, oppositivi aggressivi e controdipendenti, forse proprio per dare contro a Biancaneve, forse solo perché davvero molto stupidi o peggio perché ognuno convinto di riuscire a fregare gli altri due, decisero di ristrutturare un vecchio casolare isolato e di ricavarci tre appartamenti.

Come riuscirono nella impresa di accordarsi su ogni scelta, nessuno lo sa. Eppure la ristrutturazione fu compiuta, non senza pasticci ed errori, e ognuno prese posto nel proprio appartamento. 

Non passò molto che i tre Nani-Porcellini-Bassotti, dopo aver preso moglie e messo su famiglia, uno accanto all'altro, iniziarono a litigare e litigare e litigare. Un clima di merda, insomma. Biancaneve glielo aveva pur detto ma per loro lei era soltanto una t...a.

Ognuno di loro sosteneva che il problema fossero gli altri due, totalmente inopportuni, e soprattutto le loro mogli. I tre Nani-Porcellini-Bassotti erano tre misogini maschilisti e per loro una donna valeva tanto quanto un elettrodomestico. Delle mogli, a coppie alterne di Porcellini-Nani-Bassotti malefici, dicevano cose veramente oscene. Nelle loro discussioni interminabili, corredate di ritorsioni di ogni genere, nessuno era in grado di fare un passo indietro. Il compromesso era sempre frutto di estenuanti contrattazioni, coalizioni, discussioni alimentate dalla reciproca diffidenza unita all'egocentrismo, all'avidità e all'egoismo.

L'ipotesi che ognuno di loro in cuor proprio pensasse che prima o poi sarebbe riuscito a mandare via gli altri e a godere di quel luogo alla faccia dei fratelli fu dimostrata quando uno ad uno i tre porcellini caddero sotto i colpi di quello più cattivo di tutti. Solo in apparenza il più sfortunato: ignorante che puzza di educazione e vivere civile, lamentoso, sempre incazzato e malfidato, ad un occhio esterno faceva persino un po' pena tanto era umanamente misero. Ma per chi gli viveva accanto era un vero inferno. Ad ogni modo, chiunque lo incontrasse, anche solo per pochi secondi, non poteva che notare sulla sua faccia una espressione contrariata, ostile e inospitale e, poco dopo, realizzare che non fosse altro che un grandissimo cagaminchia.

Il Porcellino-Nano-Bassotto Malefico si lamentava soprattutto per ottenere, ora da questo, ora da quello, compassione e concessioni di ogni genere, senza offrire nulla in cambio se non la minaccia di altre lamentele, aggressioni e rimproveri. Fatto sta che alla fin fine, il Porcellino-Nano-Bassotto ebbe la meglio su tutti e tutti se ne andarono, lasciando in lui un impagabile senso di vittoria, la convinzione di essere onnipotente e di poter continuare ad essere con successo il cialtrone che era sempre stato.

Infatti, quando di lì a poco arrivò un nuovo inquilino, il nano-porcellino si sentì libero di essere sé stesso allo stato puro, privo cioè di educazione e analfabeta emotivo. Non parliamo poi della moglie e della figlia! 

"Nessuno si sente all'altezza, quindi non c'è da preoccuparsi" vale se non ti senti all'altezza. Ma quando non ti poni neppure la domanda ed agisci come da copione, se non tu, certamente qualcun altro si dovrà preoccupare dei pasticci che combini. Ed essere genitori non era proprio nelle loro corde. Ma d'altronde sono persone che non si fanno mai domande e accusano sempre gli altri dei propri problemi, semplificando così al massimo la questione.

Così, di lì a poco iniziò l'addomesticamento del nuovo inquilino, fino al giorno in cui anche questo non si stufò e successe che... 

Cosa successe? Per favore aiutatemi a trovare un finale a lieto fine almeno per il nuovo inquilino perché il cattivo Nano-Porcellino-Bassotto ne ha avute vinte anche troppe. E così la sua orribile famiglia di mostri.
[Note: Il vostro racconto deve essere in terza persona, massimo 200 parole :)]
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[Questo racconto è un'opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono il prodotto della fantasia dell'autore oppure sono usati in chiave romanzesca. Ogni somiglianza con fatti o luoghi o persone esistenti o esistite è puramente casuale].

10 marzo, 2021

IL SALTO DI SPECIE

[Leggi prima: L'Uomo Selvatico]

Alcuni scienziati hanno sollevato il dubbio se l'Uomo, la Donna e la Figlia Selvatici possano effettivamente dirsi di appartenere alla specie dell'Homo Sapiens. 

Per la scienza attuale, non ci sono dubbi: le altre specie di Homo si sono estinte. Dunque appare impensabile che la Famiglia Selvatica possa appartenere a qualche ramo morto dell'evoluzione.

Si è però recentemente edotta l'umanità intera (tranne che per alcuni gruppi particolarmente resistenti alla conoscenza) della possibilità del salto di specie a proposito dei virus.

Si sa che gli scienziati non devono escludere nessuna possibilità, neppure la più remota, se vogliono riuscire a scoprire le Leggi della Natura. Perciò, da qualche tempo a questa parte, è stato avviato uno studio sulla possibilità di un salto da una specie di Homo ad un'altra, conservatasi tramite qualche sconosciuta funzione del DNA.

Vero è che l'Uomo Selvatico è solo una leggenda ma si sa che al fondo di ogni storia c'è sempre della verità. Così, dalla curiosità di alcuni scienziati e di altri professionisti, che si ritengono a buon titolo vicini di casa dell'Uomo Selvatico, è nato un progetto, inizialmente su base volontaria e autofinanziato, adesso finanziato dall'UE, per raccogliere quanti più dati a sostegno della tesi: Il salto di specie è possibile anche per l'Uomo? E, se sì, esistono più varianti in grado di fare salti differenti?

Pare che l'Uomo Selvatico possa effettivamente essere considerato una mutazione dell'Homo Sapiens in altre specie di Homo che si credevano estinte, perché in passato non avevano le condizioni per prosperare, mentre adesso, grazie alla adeguata trasformazione ambientale e sociale, sarebbero perfettamente a loro agio, decisamente più a loro agio di quanto non possa sentirsi un Sapiens, con tanto di degna rappresentanza politica.

L'indice RT per questa epidemia è elevatissimo.

Si è osservato in tutti gli esseri umani esposti alla vicinanza o convivenza con l'Uomo Selvatico, una rapida degenerazione che conduce in brevissimo tempo o alla morte o ad una orrenda mutazione.

Tutti gli esseri umani costretti a relazionarsi con l'Uomo Selvatico presentano sintomi preoccupanti per gli scienziati e che esitano in maniera molto differente a seconda del carattere del soggetto colpito dalla disgrazia. In tutti i casi, i contagiati assistono impotenti ad una esasperazione dei propri tratti caratteriali più marcati: i sensibili divengono ipersensibili e spesso muoiono. Gli indifferenti divengono sociopatici e spesso uccidono gli altri.

Si è visto che le vittime maggiori sono le persone sensibili. Negli ultimi anni sono aumentate esponenzialmente le richieste di aiuto psicologico di persone provenienti dalla zona dove è presente l'Uomo Selvatico; sono aumentati i ricoveri e le morti di giovani donne e uomini, persone emotive, intelligenti, spiccatamente sensibili. Questi soggetti fragili, di fronte ad una tale esposizione tossica, generalmente si lasciano morire, dopo atroci sofferenze emotive. Mentre, al contrario, nelle persone già predisposte all'egoismo, all'odio, all'indifferenza, all'alessitimia, la personalità muta ma sopravvive inasprendo i suddetti tratti, disumanizzando l'individuo, rendendolo totalmente anaffettivo, insensibile, indifferente, privo di empatia, di sentimenti, di passioni. Questi mutanti si nutrono di tutti gli altri. E' il caso dell'Uomo Selvatico.

Si sospetta che all'origine l'Uomo Selvatico sia venuto al mondo come un normale Sapiens ma che, a forza di deprivazioni, abbia fatto il salto di specie, mutando in Homo Ergaster, ritenuto erroneamente estinto. Comunemente, l'Homo Ergaster viene chiamato, in modo improprio, "L'Ergastolano", per quanto le sue caratteristiche specifiche siano certamente presenti in molti ergastolani.

L'Homo Ergaster era un uomo che già due milioni di anni fa aveva comportamenti socialmente ripugnanti e per questo era stato annichilito dalle specie più evolute, ancora numericamente superiori e capaci di coalizzarsi contro le minacce.

Questo ominide pareva essersi realmente estinto. Invece deve essere stato come riassorbito in forma di nucleotide nel DNA che, una volta presentatesi le condizioni favorevoli, ha provocato una trasformazione sostanziale nell'individuo ospitante.

L'Uomo Selvatico si è letteralmente trasformato in un ominide vissuto due milioni di anni fa e così hanno fatto pure coloro che, già ugualmente predisposti geneticamente, sono stati esposti alla sua influenza.

Molti individui, prima del salto di specie, necessitano di una fase intermedia durante la quale avviene una prima mutazione preparatoria al salto, partendo da certi tratti caratteriali sviluppati grazie ad un ambiente favorevole. E solo dopo compiono il vero e proprio salto di specie, mutando l'ospite in modo irreversibile, nell'Homo Ergaster.

Le condizioni ambientali favorevoli per questo salto di specie sono: l'avidità, l'egocentrismo, la diffidenza, l'indifferenza, l'anaffettività, l'alessitimia... elementi tutti eccessivamente presenti nella nostra società moderna.

Ecco dunque spiegato il fenomeno dell'Uomo Selvatico: non più leggenda ma caso umano diffusissimo.

-----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------[Questo racconto è un'opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono il prodotto della fantasia dell'autore oppure sono usati in chiave romanzesca. Ogni somiglianza con fatti o luoghi o persone esistenti o esistite è puramente casuale].

09 marzo, 2021

SEMAFORO ROSSO

Da bambina, ad un semaforo, chiesi a mia madre che stava guidando per andare a trovare una sua amica: 

- "Perché il semaforo rosso è rosso?".

Lo domandai curiosa, come folgorata da una domanda fondamentale, mentre osservavo il semaforo in tutto il suo fascino, in attesa di ripartire.

- "Perché ci dobbiamo fermare per dare la precedenza alle altre macchine", fu la sua risposta, certamente pratica, razionale e sbrigativa.

- "Sì, ma perché rosso?"

-"Non capisco cosa dici, cosa vuol dire, cosa stai dicendo!!!". Risposta con increspatura disperante, testimonianza stavolta di una madre provata.

-"Perché rosso? Perché si chiama rosso?", domandai io, dispiaciuta di non riuscire a spiegarmi ma ancora curiosa di sapere, al punto da insistere a domandare senza accorgermi del pericolo imminente. 

Mentre mi accingevo a formulare meglio il mio difficile interrogativo, tutta concentrata sulle parole da usare, in un attimo la macchina, mia madre, io, tutto esplose.

Ancora una volta ero riuscita a fare del male senza capire come. 

Tra urla, grida e colpi, mia madre girò a sinistra, riformulando la destinazione: doveva urgentemente portarmi a casa per picchiarmi prima che la sua furia scemasse.

Era esplosa eppure continuava a guidare mentre mi colpiva senza successo perché troppo lontana e si dimenava sul sedile in preda ad una furia violenta e implacabile. Un evidente esempio di persona multitasking, capace di domare una bestia come me mentre contemporaneamente osservava il semaforo diventare verde (non chiesi mai perché verde), svoltava, seguiva la strada, parcheggiava.

Doveva arrivare a casa alla svelta, prima che la mia stupidità e la mia stronzaggine la facessero ammalare. Colpirmi violentemente funzionava sempre, dopo guariva e tornava quella di prima. 

Dopo una certa età, quella in cui si smette di sfidare i genitori, mica alla ricerca della separazione e della identità di genere come dicono oggi, ma per diaboliche intenzioni malefiche, la terapia della mia povera mamma funzionò ancora meglio e la bestia fu domata, almeno fino all'adolescenza. Per precauzione mi colpì ancora e ancora, a volte preventivamente. Io non capivo, ma lei sapeva con chi aveva a che fare.

Presi atto che, non solo dovevo essere scema perché facevo domande idiote, ma pure stronza, perché insistevo, con evidente intenzione maligna di tormentarla anche dopo che già avevo avuto una risposta.

Da bambina ero una ingrata. Se mi avessero conosciuta, certi teorici della pedagogia che andava di moda una volta avrebbero potuto scrivere un libro sul mio caso e intitolarlo: "La maledetta bambina ingrata", spiegando alle famiglie come individuare in tempo i primi segni diabolici e come prepararsi a domare un tale essere immondo, prima che si mangi il cervello dei suoi stessi genitori o li faccia ammalare.

Ero dunque una bambina malvagia, con poteri oscuri, tipo quelli degli stregoni, e di cui non avevo assolutamente il controllo.

Invece nessuno mi ha mai studiata, nessuno ha scritto un saggio, o anche solo un articolo scientifico sulla mia pericolosissima condizione.

Non solo, anni dopo, fior fiore di scienziati, evidentemente matti, scrissero addirittura "Il bambino filosofo", farneticando sulla preziosissima curiosità dei bambini e il senso profondo del loro incomprensibile modo di conoscere il mondo. 

Nessuno, dunque, era stato informato del potere malefico mascherato da curiosità di certi bambini diabolici come me.

Roba da matti. Se mia madre lo leggesse, certamente andrebbe fuori di testa, poverina.

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08 marzo, 2021

TEMPO

Ogni cosa ben fatta e apprezzata appieno richiede tempo: nascere, crescere, amare, comprendere, elaborare una perdita, cambiare, imparare, costruire.

L'ebbrezza da velocità, il movimento perpetuo sono una nevrosi. La nostra società tutta è nevrotica. Essendo però questa nevrosi tanto diffusa, si è preferito eleggerla a qualità, a pregio, a competenza, anziché cercare di prendersene cura. La velocità ha riempito il nostro vuoto esistenziale e il movimento è divenuto un'iperbole del bisogno profondo di cura e attenzione e tempo di cui necessitiamo per vivere e che ci neghiamo sistematicamente.

La pandemia ha tolto molto a molti di noi ma offerto anche tempo, non a tutti e non della stessa qualità, un tempo da dedicare a certe nostre parti piccole e delicate. Alcuni di noi si sono sentiti finalmente legittimati oppure sono stati come costretti dalle circostanze particolarmente favorevoli ad abbassare le difese e finalmente a fermarsi e fare qualcosa di veramente buono per sé stessi per la prima volta.  

Da marzo ad oggi, a causa della pandemia, ho vissuto sia drammi che gioie. Sono stati presenti, fianco fianco, il brutto e il bello, la salute e la malattia, la vita e la morte, la sofferenza e il piacere, sempre, in ogni giorno, con prevalenza ora dell'una, ora dell'altra, ma sempre insieme. Per questo mi sento di generalizzare dicendo che la pandemia di per sé non è soltanto una tragedia ma persino una risorsa.

Non parlo da privilegiata nel senso di benestante o di indifferente. Ho vissuto in questo anno emergenze e drammi che mi hanno colpito su vari fronti. Però mi sento una privilegiata per aver saputo cogliere ciò che di buono continua ad esistere nonostante tutto, fuori e dentro di me.

Non è la solita retorica che sento ripetere a pappagallo e senza badare allo stato dell'interlocutore, dai soliti eletti, dalle anime superiori che paiono vedere solo il bello di ogni situazione, con insopportabile disinvoltura. Dico retorica innanzitutto perché sono invidiosa e poi perché se sono sfracellata in terra, sui resti di me stessa, non è carino dirmi quanto invece sei fortunato tu che vedi solo il bello, sbattendomelo in faccia come la figurina introvabile, il Santo Graal, il biglietto vincente della lotteria. Cazzo, se trovi uno asfaltato magari limitati ad una mano su ciò che ne rimane e mostragli quanto siano preziosi i suoi resti. Altrimenti quello rischia di finire di disintegrarsi per senso di inadeguatezza. No, ormai esistono solo pessimisti cosmici che dicono sempre e solo che va male per non attirarsi le invidie degli altri e ottimisti cosmici che dicono solo che è tutto bello, i fiori, la vita, ecc. Entrambi inutili al prossimo. Tié.

Sembra la società degli opposti. Tanta strada per continuare a ragionare secondo il paradigma della linearità: bianco/nero, giusto/sbagliato, bello/brutto. Chissà quanto ci vorrà per integrare gli opposti e convivere con la bellezza e la bruttezza propria e degli altri.

Tempo. Se si pensa che certi cambiamenti attraversano intere generazioni, c'è caso che in una vita non si faccia a tempo a vederne il risultato. Vale comunque la pena averci provato. Altrimenti sei come l'Uomo che Puzza e non ha senso la tua esistenza. Ma, il senso ha senso se uno non se lo domanda?

Quindi il tempo è molto e, a volte, è tutto. Solo il tempo guarisce alcune ferite del corpo e dell'anima. Lo so per esperienza. Un lutto fa male finché non viene elaborato e per farlo ci vuole tempo. Dura quello che deve durare e non ci sono medicine. Si può cercare la vicinanza delle persone care, degli amici, della psicoterapia, quando ci sentiamo sopraffatti. Ad un anno dalla perdita di mia nonna, il dolore c'è ancora, ma è cambiato nell'intensità. All'inizio pareva insopportabile e lo è stato per molto tempo. Adesso ci convivo, mi emoziona, ma mi lascia respirare.

Il tempo è un bene molto prezioso e, se fosse simbolo di ricchezza, in questo momento sarei ricca sfondata. E allora, perché non apprezzare questa ricchezza, per quanto effimera, e smettere finalmente di preoccuparmi per il futuro che sembra divorato dal Nulla*?

Il tempo è ricchezza e infatti c'è chi lo ruba. Riprenderselo non è semplice, tant'è che spesso, per riaverlo, ci si ammala, delegittimati come siamo a difenderlo. Ci hanno addestrati a svenderlo o ad appropriarci di quello degli altri. 

Quindi, in questa condizione di pandemia, davvero faticosa e destabilizzante, se hai tempo e puoi abbracciarlo, fallo senza pensarci troppo, non sgualcirlo con liste di impegni inutili e inutilmente ammassati. Coccolati e coccola. (E non dico apposta goditelo perché nel nostro tempo significa spremilo, agitati e usalo egoisticamente).

Buon tempo a tutti.

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*Cfr. La Storia Infinita di Michael Ende.